Come parliamo delle tragedie e come le tragedie parlano di noi

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IL CROLLO DI GENOVA E LA DEVASTAZIONE DEL DISCORSO PUBBLICO Un camion paralizzato su un moncone di viadotto a pochi centimetri dal baratro; una voragine che ingurgita, nel cuore di una


città, unghie di calcestruzzo e boccoli d’acciaio; cinquanta metri più sotto, la fine di almeno trentanove donne e uomini, precipitati senza una spiegazione. L’enormità dei fatti di Genova


strappa la voce e indurrebbe alla continenza — c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli. Al contrario, l’autopsia del disastro


ha immediatamente impegnato i commentatori di ogni risma, aggregati in polemiche tanto ingorde da spolparsi anche il dolore. È uno schema ormai collaudato, perfezionato a ogni nuova


tragedia: prima, l’individuazione delle cause da parte d’investigatori rabberciati, sprovvisti dei necessarî elementi fattuali e delle imprescindibili competenze teoriche, ma fiduciosi nel


potere taumaturgico del motore di ricerca; poi, la collazione tra le cause riscontrate e quelle già presupposte, che immancabilmente evidenzia una compatibilità non meno che assoluta (la


realtà ha questo di buono: se la si ascolta con bastante premura, trova sempre il modo per corroborare i nostri preconcetti); a seguire, il piatto forte (i più frettolosi si dedicheranno


talvolta direttamente a questo passaggio): l’esibizione dei capri espiatorî da offrire alla folla irretita; infine, il rigetto di ogni cautela che possa ritardare l’ottenimento delle loro


teste. Cosa sappiamo del ponte Morandi? Sappiamo che sin dall’inaugurazione è stato oggetto di numerosi rimaneggiamenti; che da tempo gli esperti avanzavano sospetti sul suo stato di


conservazione e sulla sua durevolezza; che queste denunce erano note alla politica e alla concessionaria, che aveva programmato per ottobre un intervento di manutenzione straordinaria da


venti milioni di euri del tratto collassato; che da oltre trent’anni si discuteva di un progetto di bretella — la Gronda — mirante a sgravare il viadotto di parte del traffico, se non


proprio a consentirne il pensionamento e la demolizione; che quest’opera aveva incontrato la resistenza di comitati di cittadini — esplicitamente appoggiati dal M5S — prima di ottenere il


via libera nel 2017, per poi essere nuovamente frenata nelle ultime settimane dal ministro Toninelli. Ne sappiamo, insomma, molto: ma non ciò che davvero c’interessa sapere: perché è


crollato? Non sappiamo cos’abbia effettivamente provocato il cedimento fatale; non sappiamo se, nel corso del tempo e nell’attesa degli interventi strutturali programmati, Autostrade per


l’Italia abbia dedicato adeguate risorse al monitoraggio delle criticità e alla manutenzione ordinaria; non sappiamo se l’azienda abbia omesso di predisporre le misure prudenziali che i dati


disponibili avrebbero richiesto; non sappiamo se le autorità pubbliche abbiano vigilato con la dovuta accortezza sull’operato della concessionaria. Ed è ovvio che non lo sappiamo: a queste


domande dovrà rispondere, a tempo debito, la magistratura. L’ignoranza delle circostanze del disastro non ha impedito che ciascuno traesse dalla vicenda la morale più confortante. Secondo la


maggioranza, le sue cause vanno ricercate nell’austerità (Bagnai), nei vincoli di bilancio europei (Salvini, apparentemente ignaro dei fondi stanziati da Bruxelles anche per


l’ammodernamento delle infrastrutture), nelle privatizzazioni (Di Maio), nella mancata manutenzione (Toninelli), nelle grandi opere (Baroni: giuro). Dalla diagnosi alla prognosi, il passo è


breve: una multa “fino a 150 milioni”, l’azzeramento dei vertici dell’azienda, forse persino la rinazionalizzazione della gestione della rete, ma prima senz’altro la revoca della concessione


ad Autostrade. Poco importa che di eventuali sanzioni si possa ragionare solo dopo l’accertamento delle responsabilità; che le cariche di una società privata non dipendano dal governo; che


non si veda come un esecutivo inadeguato alla mera supervisione possa fornire maggiori garanzie nella gestione diretta dell’infrastruttura; che i margini per la revoca siano a dir poco


angusti in assenza di pregresse diffide e in attesa di capire perché quel che è successo a Genova sia successo (senza contare che all’azienda si dovrebbero liquidare gli utili attualizzati


per la residua durata della concessione): quel che importa è la costruzione del nemico pubblico, possibilmente di un nemico che “paga le tasse in Lussemburgo” (il che, per inciso, è falso —


ma già divaghiamo). E a chi ha fatto notare che, almeno in questa fase, non sussistono i presupposti per i provvedimenti annunciati, ha replicato la rovinosa giustificazione di Conte: “non


possiamo aspettare i tempi della giustizia”. C’è un indimenticato siparietto dell’epica calcistico-televisiva: Maurizio Mosca risponde alla telefonata di uno spettatore che lo accusa in


diretta di aver acquistato cocaina (“quattrocento mila lire… in piazza Aspromonte”); Mosca si difende, minaccia querela, dissolvenza pubblicitaria; al rientro in studio, l’annuncio: nello


spazio di quattro minuti, il presunto diffamatore è già stato arrestato. Poco male: la cultura giuridica di Mosca era quella di un uomo formatosi al Processo del lunedì. Sarebbe lecito


attendersi qualcosa di meglio da un capo del governo che in una vita precedente — stando al suo curriculum — si è occupato più o meno diffusamente di diritto. Peraltro, le dichiarazioni del


presidente del Consiglio hanno comprensibilmente offuscato quelle, non meno inquietanti, del procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi: ancor prima dell’avvio delle indagini, il magistrato


si è lasciato sfuggire che «Bisogna capire qual è stata la causa scatenante. Ma non mi si parli di fatalità, non si parli di cattiva sorte, di accidentalità. Questo è il risultato di una


folle distruzione del territorio, della quale il solo colpevole è l’uomo» — a riprova del fatto che la tentazione di mettere il carro della giustizia popolare davanti ai buoi dello stato di


diritto ha oramai raggiunto uno stadio epidemico. A questo scempio, l’opposizione ha risposto essenzialmente in due modi: da un lato, ha imputato il crollo del ponte alla cultura del no


alimentata dal maggior partito di governo, specialmente sottolineando la contrarietà del M5S al già ricordato passante della Gronda: conclusione scivolosa perché è discutibile che quelle


proteste abbiano esercitato un’influenza concreta sull’iter del progetto, ma soprattutto perché la necessità insoddisfatta di nuove opere non può implicare che su quelle esistenti, nel


frattempo, si vada a morire; dall’altro, ha condannato lo sciacallaggio politico della maggioranza, facendo a propria volta sciacallaggio politico — in qualche caso con toni da postribolo


particolarmente deprecabili alla luce del momento. Ora, è certo ingenuo pensare che si possa evitare ogni forma di strumentalizzazione delle tragedie, se con ciò alludiamo all’operazione di


ricavarne argomenti che supportino posizioni politiche. Le nostre opinioni, d’altra parte, si fondano sull’interpretazione della realtà e, sebbene le regolarità fattuali forniscano


indubbiamente una guida più affidabile per la costruzione di una solida visione del mondo, eventi straordinarî come il crollo di un ponte hanno il potere di catalizzare il nostro interesse


su problemi che altrimenti rimarrebbero trascurati. Il desiderio di analizzare quanto è successo a Genova e di trarne delle conclusioni per evitare che simili accadimenti si ripetano è,


naturale e legittimo — e perfettamente rispettoso delle vittime, dei loro familiari, della città, oltreché di noi stessi. Tuttavia, negli ultimi due giorni abbiamo assistito a uno spettacolo


ben diverso e a un’altra forma di strumentalizzazione: al tentativo assillante, cioè, di piegare la realtà del disastro a schemi preconcetti e di convertire la risposta emotiva dei


cittadini in capitale politico. In altre parole, non si discute la tragedia per trarne un insegnamento, bensì per trarne un guadagno; con il corollario che il tornaconto sarà tanto maggiore


quanto più rapida sarà la risposta. Il pubblico vive una specie di _horror vacui_, per cui un silenzio riguardoso sarebbe intollerabile; la classe politica è ben lieta di accontentarlo, con


una corsa alle dichiarazioni più rumorose e balorde. L’immediatezza delle reazioni non è soltanto un oltraggio alle vittime — ridotte a strumento propagandistico––ma anche un ostacolo


insormontabile per una disamina rigorosa dei fatti. Darsi il tempo del lutto significherebbe soprattutto darsi il tempo del pensiero. Intendiamoci: tra le molte esternazioni sguaiate, se ne


contano anche alcune di moderate e documentate. Accanto ad argomentazioni smaccatamente opportunistiche, si rinvengono critiche condivisibili alla segretezza delle concessioni autostradali,


riflessioni minuziose sul livello degli investimenti, ricostruzioni accurate del processo di privatizzazione. Ma — ed è proprio questo il dramma — ogni contributo finisce per ingrossare il


fiume dell’indignazione senza poterne alterare il corso, per una sorta di legge di Gresham del dibattito pubblico, in cui l’opinione cattiva scaccia l’opinione buona. Non si ripulisce il


Gange a colpi di Evian; e se il rumore di fondo aumenta, aumenta anche il vantaggio di chi urla più forte. È sempre più chiaro, temo, che in questo paese non esista oggi più spazio per una


razionalità condivisa; il problema esula da Genova, naturalmente, ma colpisce che neppure la portata emotiva di una vicenda come il crollo del ponte Morandi permetta di rammendare il tessuto


di un confronto costruttivo: viceversa, più si alza la posta, più si riduce la possibilità di una discussione ponderata: il pubblico ha fame di spiegazioni prefabbricate e di provvedimenti


subitanei, sicché la strumentalizzazione nelle tragedie non solo non incontra alcun biasimo, ma viene apertamente incoraggiata (e premiata in termini di consenso). Come ricostruire la


grammatica di un’argomentazione rispettosa, se tacere è impossibile e intervenire è inutile? Non ne ho idea; e quest’articolo inconcluso ne è la vistosa dimostrazione.